Senza saperlo, qui da noi in villa si viveva una finestrella sulla Pax Venetiana d’altri tempi, in armonia uomini e natura.
Mio nonno stava con i “suoi” contadini, li vedevo parlottare e anche ridere, segno che le cose andavano bene, che ce n’era per tutti; mia nonna intratteneva quotidianamente le femene di quelle stesse famiglie che accoglieva in chiesina ogni santo giorno alle tre del pomeriggio per recitare il rosario.
Quando arrivava l’estate, i compagni di classe andavano a lavorare nei campi con i loro padri. Anch’io avrei voluto pie descalsi e braghesse curte (piedi nudi e calzoncini corti - i nostri erano irrimediabilmente al ginocchio, una vera sofferenza) e starmene a torso nudo, ritto e abbronzato in cima al carro di fieno tenendomi al forcone. Quei ragazzini ci guardavano, me e mio fratello, direi con compatimento, almeno a me sembrava così, tra lo sfacciato e l’ironico, dandosi arie di uomini fatti, mentre noi eravamo solo bambini. Erano fieri di aiutare in casa e a noi quel mondo sembrava precluso.
Mia madre decise un giorno che mi avrebbe fatto bene stare con gli uomini in campagna. Levata alle sei, una tazza di latte e cacao e poi al lavoro, a tagliar frumento col falcino - “vardé che nol se fasa mal” - o a tirar su patate o a “battere" l'uva. E allora finalmente i figli dei contadini diventavano gentili e mi insegnavano come usare bene gli attrezzi e vedendo che ero bravo guadagnavo la loro stima e si diventava un po’ amici. Loro sempre in cima al carro, beninteso, e io sotto. E che felicità se ci invitavano a salire su con loro!
Non durò molto. Una sera, mentre mi metteva a letto, raccontavo a mia madre la giornata: il falcino, i covoni, il carro trainato da buoi, il forcone, la marenda alle otto con polenta e latte nel cucinone della casa colonica, il pranzo a mezzogiorno con pollo in umido e patate con le donne intorno al tavolo che non si sedevano mai, le soste all’ombra nelle ore più calde…
Già, “ ‘ndemo a tor un’ombra” era il segnale: si lasciavano gli attrezzi e si andava sotto un olmo o un cipresso dove nell’erba, all’ombra, avvolto in uno straccio bagnato, si trovava un bottiglione di vino e un bicchiere e dove tutti si facevano un’ombra bella rasa o due.
“Ma tu no, vero?” Mi interruppe mia madre guardandomi dritto in faccia.
“Sii, anch’io, come gli uomini!”
“Ma… soltanto un po’, un goccio…”
“No, no, tutte le volte, un bicchiere pieno!”
“Ma… oggi tipo quanti?
“Ehhh… mi pare sei ombre!”
Finì lì il mio lavoro da contadino. Era vino per modo di dire, aspro e zuccherato. Energia che si sudava tutta, necessaria per sconfiggere la fatica e, in giro nel Veneto, per sconfiggere anche la fame, la miseria e la disperazione. Ma da noi c’era pace.
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